In occasione della Settimana Europea della Mobilità 2015 anche noi di CityRailways abbiamo dato il nostro supporto per una serie di interventi didattici per la promozione di buone pratica di mobilità.
– Di Andrea Spinosa –
Quest’anno le richieste di supporto che ci sono pervenute hanno riguardato maggiormente la promozione di strumenti di controllo e moderazione del traffico urbano: è un argomento molto sentito dalle Amministrazioni italiane. Senza dubbio a ragione.
È in corso la discussione parlamentare sul disegno di legge sull’introduzione del reato di omicidio stradale: vale la pena di estendere qualche riflessione su quanto abbiamo raccolto incontrando alunni delle scuole medie e superiori ma anche genitori e professori. Sperando che possano essere utile nel sollevare un dibattito e qualche riflessione, dalla strada al Parlamento.
L’Italia vive una condizione tutta particolare dettata dall’aver concesso uno spazio senza precedenti, nel resto d’Europa, alla mobilità privata ovvero alle esigenze del singolo. Ma questa distorsione non significa che gli italiani, dal canto loro, siano i peggiori della classe in tema di educazione civica.
Quello che manca da noi è la prevenzione.
E prevenzione è formazione ma soprattutto dissuasione dei comportamenti scorretti.
Tedeschi, austriaci e svedesi non sono migliori di spagnoli, greci e italiani. Non hanno il gene del rispetto del prossimo: messi dentro una scatola da 1.500 kg dimenticano di essere vulnerabili e restringono tutti, in maniera naturale, il fuori allo spazio compreso tra il volante, il lunotto e il finestrino. Tutto ciò che è fuori è “lontano”, “remoto”.
Perché, allora, attraversare la strada a Vienna e Stoccolma non è così difficoltoso – e pericoloso – come a Bologna o Roma? Perché le nostre città sono quelle in cui è più alta la possibilità di essere investiti sulle strisce? E c’è poco da perdersi in inconcludenti confronti campanilistici: sulla strada la penisola diventa una e indivisibile.
Perché a Vienna e Stoccolma, e non solo, esistono sistemi passivi e attivi di controllo: accanto al segnale ci sono dissuasori sonori e telecamere che rendono la sanzione pressoché sicura. Mettiamola così: siamo tutti uguali. Abbiamo bisogno di un notes che ci ricordi di fare attenzione.
Non ci credete?
Quanti di voi si sono soffermati a pensare che se si dà una spinta alle spalle di un passante, gli si può provocare una rovinosa caduta (e ricevere in cambio un bel, meritato, cazzotto). Ma se metto una corazza da 1.500 kg allora gli si può fare molto, molto male.
Perché questo è un’automobile: una corazza che ci fa dimenticare che siamo 12 volte più pesanti di un motociclista, 17 di un ciclista, 23 volte di un pedone. Più pesanti e più sicuri: chi deve cedere il passo, allora?
Una telecamera a raggi infrarossi ci può rammentare che il pedone sulle strisce ha sempre la precedenza. Perché è l’elemento più indifeso che possa comparire sulla strada.
La sanzione è un elemento di dissuasione: deve rammentare e non punire. Perché?
Perché la fatalità non deve accadere, punto.
Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) gli incidenti stradali sono
- la nona causa di morte nel mondo fra gli adulti,
- la prima fra i giovani di età compresa tra i 15 e i 19 anni,
- la seconda per i ragazzi dai 10 ai 14 e dai 20 ai 24 anni.
Pedoni, ciclisti e motociclisti costituiscono circa il 39% delle vittime della strada.
Nelle città italiane si registra il 43% delle vittime della strada, contro una media europea del 34%, che in molti paesi scende anche sotto il 25%: questo significa che le città italiane sono più insicure.
Il 42% dei morti in città è un pedone o un ciclista: per migliorare la sicurezza stradale occorre partire dai centri urbani e intervenire prima di tutto proteggendo l’utenza debole.
L’introduzione del reato di omicidio stradale, seppure giusto per alcuni, non modificherà affatto questa situazione. Non è questione di castigo ma di colpa: il 98% delle fatalità costituiscono un dramma per il guidatore a prescindere da quella che sarà la punizione.
Ad eccezione dei comportamenti indotti da stupefacenti o alcol o peggio, da quelli preterintenzionali (per i quali il legislatore è già intervenuto in senso penale), la più grande punizione è la consapevolezza di ciò che si è fatto. È come riprendere contatto all’improvviso con una realtà che si riteneva fatta solo di noi e delle nostre priorità.
Alla funzione del perdono cattolico, l’indulgenza che alla fine può essere concessa a tutti e per qualunque atto, nell’era digitale si è sostituita l’etica del “canc”. È quella sensazione che abbiamo quando, passando il 40% della giornata immersi in ricerche, discussioni e relazioni digitali ogni errore può essere recuperato. Basta digitare il tasto “canc”.
La vita reale non è così: quando lo diciamo ad una platea di adolescenti ci guardano esterrefatti. La stragrande maggioranza reagisce come svegliandosi da un sogno: “è vero, non ci avevamo mai pensato”.
La punizione aggrava uno stato di prostrazione che nella maggior parte dei casi già rappresenta la principale punizione: il non poter tornare indietro e annullare tutto. Sappiamo che un inasprimento delle pene porterebbe alla contrazione delle fatalità di appena un 10%.
Con 12 morti per milione di abitanti, il Lazio è una delle regioni più insicure d’Italia: la media (Istat, 2013) è di 9 fatalità mentre la Lombardia si ferma a 6 morti per milione di abitanti. Perché questa differenza? Perché il Comune di Roma, e l’area urbana di Roma, ha il tasso di motorizzazione più elevato d’Europa. Se si riempie una vasca per pesci rossi di piranha, difficile pensare che il nostro pesciolino-pedone possa uscirne illeso.
Perché non agire sulla limitazione della velocità massima delle automobili e dei motocicli. Squarciamo questo velo una volta per tutte: che senso ha produrre veicoli che superano di 2 o 3 volte il limite massimo di velocità in autostrada?
Tanta (pelosa) attenzione all’affaire Volkswagen: parliamo di un 25% di emissioni inquinanti in più rispetto al dato dichiarato. Ma nessuno dice che produrre diesel in grado di procedere ad un massimo di 150 km/h significherebbe realizzare motori con emissioni minore anche del 70% rispetto ai modelli sul mercato.
Perché si è lasciato che in Italia ci si sentisse tutti nel diritto di avere de-facto una deroga dal rispetto dei limiti stradali: chilometri ininterrotti di strisce continue, anche nei lungi rettifili, annullano l’effetto prescrittivo del segnale e obbligano all’infrazione.
Il limite dei 50 km/h nelle aree urbane è destinato ad essere rispettato solo da chi sta facendo qualche lezione di scuola guida. Perché, a strada libera, la velocità media nei centri storici è di 59 km/h e nelle zone periferiche – ma sempre in centro abitato – è di ben 72 km/h?
In luogo della discussione del reato di omicidio stradale perché non prevedere maggiori risorse per i Comuni in tema di controllo del traffico ma soprattutto perché non prevedere nuovi dispositivi di pianificazione della mobilità urbana.
Lasciati soli, come essere umani, siamo naturalmente incapaci di pensare al bene comune. Questo per tutta una serie di azioni e reazioni della civiltà del consumo: quando eravamo contadini di un Paese arretrato eravamo perfettamente consci dei limiti personali e del bene comune.
Ad ogni modo immaginate un condominio di 50 famiglie: pensate che senza amministratore possa restare in piedi per molto tempo? Naturalmente siamo tutti portati a pensare che il nostro singolo appartamento sia indipendente da quello del vicino come fossero tutti sorretti da strutture proprie con un proprio tetto.
Dove sono finiti, allora, gli Amministratori delle città italiane?
È necessario agire subito sulla protezione degli attraversamenti pedonali.
È necessario ridurre la velocità dei veicoli nelle aree urbane centrali: basta il rispetto dei limiti.
Telecamere ma anche l’introduzione di aree in cui l’automobile non è più protagonista ma deve cedere il passo alla mobilità lenta: non parliamo di zone pedonali ma di Zone 30 e Zone 20 (sconosciute in Italia).
In caso di frenata improvvisa, una vettura in marcia a 30 km/h si arresta 14 metri prima di un veicolo che procede a 50 km/h. A quella medesima distanza il veicolo che procede a 50 km/h non ha ancora iniziato la frenata.
Se un veicolo in viaggio a 50 km/h colpisce un pedone, lo shock è equivalente ad una caduta da 10 metri di altezza. Se la velocità si dimezza la collisione corrisponde ad una caduta da 3,5 metri di altezza. In caso di incidente, la gravità delle lesioni aumenta con il quadrato della la velocità del veicolo, se la doppia velocità, l’energia cinetica quadruplo!
A 30 km/h, il rischio di incidenti diminuisce. E nel caso di collisione, le lesioni sono meno gravi. Se un pedone viene investito da un auto in viaggio a 50 chilometri all’ora, le sue possibilità di sopravvivenza non superano il 30%. A 30 km/h aumentano al 90%!
Procedere a 30 km/h permette di ridurre la distanza di sicurezza tra i veicoli e quindi di aumentare la densità degli autoveicoli. A differenza di quanto si potrebbe pensare a prima impatto: ridurre la velocità serve a ridurre i tempi di viaggio in città.
Andate più piano: scoprirete che per migliorare le città non servono urbanisti di grido o costosi progetti. Ma serve la consapevolezza che siamo tutti attori nel mettere in scena, ogni giorno, lo spazio urbano che abbiamo sotto gli occhi. Se è degradato non è per colpa degli altri. Gli altri siamo noi.
E vale la pena di ricorda che non siamo automobilisti, motociclisti, camionisti, ciclisti, pedoni. Siamo tutti persone con il sogno di vivere nel migliore dei mondi possibili.