SE PER MOLTI L’INATTESO RISULTATO DELLE ELEZIONI PRESIDENZIALI AMERICANE APRE DEGLI SCENARI PIENI DI INCOGNITE SULA SCENA INTERNAZIONALE, PER IL TRASPORTO PUBBLICO SU FERRO DEGLI STATI UNITI L’OTTO NOVEMBRE SCORSO HA RAPPRESENTATO UNO DEI MIGLIORI MOMENTI DELLA STORIA RECENTE.
– Di Marco Chitti* –
I n concomitanza con le elezioni presidenziali, si sono infatti tenuti una ventina di referendum locali in altrettante aree urbane del paese per sottoporre al voto popolare l’adozione di nuove tasse per finanziare la realizzazione di nuovi, grandi e piccoli piani di espansione del trasporto pubblico.
Referendum propositivi su questa materia non sono una novità per gli Stati Uniti. Le amministrazioni e le agenzie di trasporto locali, progressivamente private a partire dagli anni 80 delle risorse federali per il trasporto pubblico e insidiate dall’erosione della loro base fiscale al grido reaganiano di “meno tasse per tutti”, si sono progressivamente orientate verso l’adozione di una tassazione di scopo, da approvare attraverso il voto popolare, per potere finanziare l’espansione e la manutenzione dei sistemi di trasporto pubblico nelle grandi aree metropolitane. Si tratta, nella più parte dei casi, di aumenti della sale tax (una sorta di IVA, il cui gettito va principalmente agli stati e alle contee), di tasse sugli immobili (che, a differenza dell’Italia, sono molto elevate) e di tasse di immatricolazione, il cui gettito viene affidato ad agenzie pubbliche che assicurano la gestione e lo sviluppo del trasporto pubblico per conto di comuni e contee.
L’aspetto dirompente di questa tornata elettorale è la quantità di proposte al vaglio degli elettori (una ventina) e l’approvazione di più di due terzi delle iniziative sul tavolo, tra cui i “faraonici” piani di sviluppo di Los Angeles e Seattle. Nella “Città degli Angeli”, un’area metropolitana di quasi 13 milioni di abitanti su 15.000 Kmq e a lungo simbolo di un modello urbano basato sull’automobile, più di due terzi degli elettori hanno approvato la “measure M”, un aumento della sale tax che permetterà di raccogliere 120 miliardi (avete letto bene, miliardi!) di dollari nei prossimi 35 anni per finanziare, tra le altre cose, un ambizioso piano di espansione. Queste risorse, approvate da quasi il 70% dei votanti, permetteranno di quasi raddoppiare gli attuali 160 km di rete su ferro (già in parte finanziati da un precedente aumento delle imposte locali), oltre a corridoi di BRT ed iniziative per la mobilità ciclabile e pedonale.
Più a nord, nello stato di Washington, gli elettori del Puget Sound, l’area metropolitana che gravita attorno a Seattle, hanno appoggiato a larga maggioranza un massiccio piano di espansione dell’embrionale rete di light rail esistente che permetterà di aggiungere oltre 100 km di nuove linee da qui al 2041, connettendo il centro e i sobborghi di un’area metropolitana in forte crescita (+35% in trent’anni) e che ospita i, tra gli altri, i colossi Microsoft e Amazon.
Ciò detto il nord America è lontano dal rappresentare un caso esemplare per il trasporto pubblico su ferro. Le città statunitensi, soprattutto quelle del midwest e della costa ovest, soffrono di decenni di sviluppo suburbano a macchia d’olio e bassa densità a fronte di un trasporto pubblico su ferro carente quando non inesistente, portando a quei fenomeni di estrema congestione stradale evocati dal film “Un giorno di ordinaria follia”. A partire dagli anni novanta si è diffusa la consapevolezza che la sola mobilità privata motorizzata non poteva rispondere ai bisogni di mobilità di organismi urbani in forte crescita e che le sue esternalità (danni alla salute e all’ambiente, ore di lavoro perse, etc.) superavano di gran lunga i benefici. Sull’esempio di città pioniere come Portland in Oregon (prima linea inaugurata nel 1986), decine di città medie e grandi hanno sviluppato e continuano a sviluppare vaste reti di light rail per legare i sobborghi residenziali ai quartieri centrali. Si tratta di sistemi “metrotranviari” che adottano inserimenti urbanistici flessibili: fermate ravvicinate e sedi promiscue su strada, in aree pedonali o tunnel nel centro città più denso e fermate distanti, percorsi segregati su strada, in viadotto, lungo mediane autostradali o vecchi tracciati ferroviari nei sobborghi meno densi. La diffusione di questi sistemi intermedi, dal costo più contenuto delle metropolitane tradizionali, ha permesso a molte città americane, poco dense e diffuse su vasti territori, di dotarsi negli ultimi trent’anni di estese reti di trasporto su ferro attorno a cui strutturare politiche di densificazione del tessuto urbano (TOD ovvero Transit Oriented Development per gli anglosassoni amanti degli acronimi). È un approccio pragmatico che cerca di portare il trasporto pubblico su ferro come un’opzione di mobilità competitiva ed economicamente sostenibile in i contesti urbani pensati attorno alla mobilità privata motorizzata.
Quali insegnamenti per l’Italia? Difficile a dirsi. Il sistema politico, elettorale ed amministrativo statunitense è profondamente differente da quello italiano. In Italia le autorità locali hanno una scarsissima autonomia finanziaria e gli organi di governo metropolitano un futuro incerto. I meccanismi di democrazia diretta sono pressoché inesistenti. Ma se una cosa possiamo imparare, questa è la maniera di costruire un vasto consenso pubblico attorno a piani ambiziosi e visioni globali per il futuro della mobilità pubblica. Lunghi processi di discussione aperta, profondamente ancorati nella pratica democratica americana, hanno permesso di costruire un largo accordo a favore di più tasse in cambio di un migliore trasporto pubblico. L’accessibilità e l’abbondanza di informazioni sulle opzioni sul tavolo e su costi e benefici delle diverse scelte tecniche contribuiscono a un senso di trasparenza attorno alla realizzazione di opere pubbliche importanti: tutto può essere facilmente consultato su internet, dagli ottimi documenti divulgativi ai più dettagliati rapporti tecnici. Certo non è tutto oro quello che luccica. Questi processi sono lunghi e costosi, portano spesso a scelte tecniche accomodanti nei confronti di gruppi di pressione locale che fanno esplodere i costi e i tempi delle opere, che in Nord America sono già tra i più elevati del mondo. Ma rappresentano un percorso capace di costruire un supporto pubblico attorno a visioni di mobilità collettiva condivise che, nell’Italia dei no-metro, no-tranvia, no-grandi opere, delle trovate estemporanee e dell’eterno fare e disfare delle amministrazioni locali, sembra un lontano miraggio.
* Faculté de l’Aménagement, Université de Montréal (Canada)