È il momento della sostenibilità urbana. Ogni cittadino abita un luogo di vita (la residenza) e opera in un luogo produttivo (il lavoro): durante la giornata usufruisce per un tempo determinato di svariati altri luoghi per soddisfare determinati bisogni (servizi). Il miglioramento della sostenibilità dell’abitare, così come della sostenibilità dei processi produttivi, visti nella loro fissità risponde solo parzialmente al problema della mitigazione del consumo di risorse nei cicli circadiani. Se ogni elemento (casa-lavoro-servizi) è inquadrato dinamicamente all’interno del ciclo quotidiano che li unisce si potrà elaborare una soluzione di sostenibilità che non sia mirata solo agli estremi ma che ottimizzi il processo stesso, con un beneficio che non sarà solo legato tutto all’abitare o tutto al luogo di lavoro ma a quel complesso sistema relazionale che è la vera forma delle città
Topologia della mobilità urbana
Immaginiamo di eliminare completamente le auto e altri mezzi di proprietà e ogni forma di trasporto pubblico dalla nostra città. E immaginiamo di sostituire il tutto con una flotta di mezzi elettrici a guida autonoma.
Quanto dovrebbe essere grande questa flotta?
Ce lo dicono gli spostamenti che dobbiamo compiere ma per fare questo calcolo abbiamo bisogno della teoria dei grafi. Immaginiamo di costruire un grafo nel quale i nodi siano origine o destinazione degli spostamenti giornalieri. Dobbiamo unire ogni nodo all’altro: se avessimo solo 2 nodi, basterebbe un solo arco. 3 nodi, 3 archi. 4 nodi, 6 archi. 5 nodi, 10 archi.
20 nodi, la metà di 20 per 19 (cioè 20 – 1), ovvero 190 archi.
Immaginiamo ora di lavorare su una città reale, per esempio la porzione della città di Roma contenuta entro il Grande Raccordo Anulare. Discretizziamola in tanti quadrati di 500 metri di lato: perché 500 metri? Perché è la distanza che mediamente tutti sono disposti a percorrere (a piedi o in bicicletta) per raggiungere un mezzo di trasporto.
La superficie è di circa 340 km quadrati da coprire con 1.360 celle. Mediamente da 2,34 milioni di residenti, ricaviamo che in ogni cella risiedono 1.720 persone. Sappiamo che di questi circa l’85% si sposta giornalmente e che di questi il 10% lo fa tra le 7:30 e le 8:30.
Gli archi da percorrere sono 924.120. Misurano ciascuno 500 metri in orizzontale/verticale e circa 700 metri in diagonale (lato per radice quadrata di 2). In media per ogni cella sono 4 percorsi orizzontali/verticali da 500 metri e 4 diagonali da 700 metri per una lunghezza minima nodo-nodo di 600 metri.
La distanza complessiva da percorrere sarebbe di 924.120 x 0,6 km = 554.472 km. Questo perché dovremmo assicurare almeno un transito su ognuno dei singoli tratti da nodo e nodo: potremmo conoscere in precedenza che alcuni nodi non debbano essere raggiunti ma non possiamo a priori isolare delle zone di città. Dobbiamo quindi ammettere la necessità di poter andare tutti ovunque.
Sappiamo che la guida automatica è cauta per natura e quindi non supererà i limiti di velocità: probabilmente considerando anche i tempi di sosta per imbarco e sbarco dei passeggeri manterrà una velocità commerciale di 30 km/h.
Se un solo veicolo ideale dovesse percorrere 554.472 km a 30 km/h impiegherebbe 18.500 ore circa (700 giorni). Possiamo naturalmente immaginare una ottimizzazione dei percorsi e adottare e, ricorrendo ad uno qualunque degli algoritmi per la ricerca del minimo percorso da un nodo e un altro, possiamo supporre che l’IA che governa il sistema riesca a toccare ciascun nodo passando per solo 2 delle tratte sulle 8 che vi convergono. Significa ridurre il percorso del 25%, a 138.618 km (percorribili da un solo veicolo in 4.620 ore).
Ora in ogni nodo ci sono 146 persone che debbono spostarsi in altri punti della città: immaginando una capacità di 4 posti, da ogni nodo dovranno essere disponibili 37 mezzi automatici. Ammettiamo anche che ciascun residente debba avere una sola destinazione: 147 destinazioni su 1.360 possibili (2,7%).
Si tratta di un calcolo ideale: se immaginiamo una densità di servizi omogenea la distanza media da percorrere è assimilabile, nell’esempio, al raggio del Grande Raccordo Anulare ovvero all’estrazione del raggio della superficie totale dell’area urbana considerata come se fosse perfettamente circolare.
Nel caso, 10,4 km. A una velocità di 30 km/h, percorribili in 21 minuti.
Immaginiamo però che le destinazioni non siano vicine e consideriamo che l’utenza ritenga accettabile non passare più di 40 minuti in viaggio. Questo significa che dei 4 residenti, 2 andranno con un mezzo e 2 con un altro: ammettiamo però di poter accedere al servizio con una app di condivisione e che si riesca a recuperare almeno un utente strada facendo.
In ora di punta avremo necessità di una flotta pari a:
37 mezzi x 1.360 nodi x 2 (occupazione al 50%) x 3/4 (ottimizzazione car pooling) = 75.480 mezzi
Ora la situazione è valida per un modello ideale: lo sviluppo delle strade non è affatto isotropo così come la loro geometria non è ideale. Simulatori di traffico ci dicono che la velocità commerciale di un simile completamente automatico si attesterà tra i 10 ed i 15 km/h a seconda delle zone.
Sappiamo che il mercato è regolato su una sola legge: assecondare i bisogni dell’utenza. Tutti vogliono passare meno tempo possibile su un’auto (manuale o automatiche che sia) e il sistema farà sì di assecondare questo desiderio: in pratica non tutti accetteranno di condividere il proprio viaggio, allontanandosi dal percorso minimo verso la propria destinazione. È verosimile che il coefficiente medio di occupazione si attesti entro un valore compreso tra 1,5 e 2. La flotta necessaria a rispondere alla domanda di mobilità dell’ora di punta sarà:
37 mezzi x 1.360 nodi x 2,28 (occupazione al 43%) = 114.730 mezzi
Oggi la situazione è la seguente: di 2,34 milioni di residenti, il 34% si sposta con i mezzi pubblici. La parte restante con mezzo proprio ad un coefficiente di riempimento di 1,2 persone per auto:
2,34 milioni x (1-0,34) x 0,85 x 0,83 (1,2 persone per auto) = 109.395 autovetture in circolazione
Se consideriamo anche i bus (1.200) ed i tram (54, in media) e moltiplicando i primi per 2,5 e i secondi per 5 (come fattore dimensionale comparativo con una normale automobile) otteniamo 112.719 veicoli equivalenti in circolazione.
Nell’esempio il valore che ci interessa è quello incrementale: non consideriamo quindi gli spostamenti provenienti dall’area urbana esterna e dall’area metropolitana.
Passare all’automazione quindi non ridurrebbe affatto le auto in circolazione ma le aumenterebbe di un fattore compreso tra il 2,5 e il 5,0%.
Per quanto si tratti di un modello semplificato, le evidenze sperimentali ci permettono di trarre alcune considerazioni generali:
- L’automazione ridurrebbe drasticamente l’incidentalità (≤ 5% del valore attuale);
- L’automazione non ridurrebbe i mezzi totali in circolazione ma li aumenterebbe di un fattore compreso tra il 2,5 e il 5%;
- La velocità media di circolazione aumenta ma resta costante sia nell’ora di punta che in quella di morbida: ci si dovrà abituare ad andare tutti più lenti. Non solo entro i limiti di circolazione ma entro il rispetto dei coefficienti di sicurezza che gli enti di controllo riterranno opportuni. Come per le ferrovie nascerà una Agenzia nazionale per la sicurezza stradale che vigilerà su norme e regolamenti;
- Non si potrà svicolare né andare “a vista” regolandosi a sentimento, ovvero a fortuna. Questo significa che tutte le auto dovranno rispettare le distanze di sicurezza e i franchi laterali. In una parola aumenterà la sagoma dinamica del traffico e lo farà in maniera considerevole: se oggi si viaggia al massimo alla metà della distanza di sicurezza che si dovrebbe tenere senza tenere conto dei giusti franchi di sicurezza in futuro un’auto automatica che procede a 30 km/h distanzierà almeno di 15 metri quella che la precede. L’aumento di spazio destinato alla viabilità è il prezzo di una maggiore sicurezza: ne consegue che ci sarà bisogno di almeno il 52-55% in più di spazio per la circolazione.
Un tema poco dibattuto è proprio quello dello spazio pubblico occupato dalla parte mobile della città, cioè lo spazio occupato da noi cittadini durante i nostri spostamenti: uno spazio dinamico che tende addirittura ad essere prevalente rispetto a quello immobili (edifici e attrezzature collettive).
Un caso paradigmatico: dal tele-commercio all’e-commerce
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta Postalmarket era leader italiano nel mercato delle vendite per corrispondenza: fatturava circa 600 miliardi di lire e gestiva 45.000 spedizioni giornaliere.
La Vestro invece nasce nel 1961 da una partnership fra la Schwab di Francoforte e la società tessile italo-svizzera Legler. Nel 1974 si dota di una rete informatica e di un CED per l’elaborazione elettronica degli ordini, contemporaneamente apre i Centri Vestro: piccole strutture dislocate sul territorio italiano per la raccolta degli ordini sia telefonici che postali. La strategia era improntata sulla riduzione dei costi di chiamata, le telefonate nelle grandi città rivolte alla ditta diventarono urbane al costo di 127 lire da casa e 200 lire da cabina telefonica e i tempi di recapito della corrispondenza, infatti una lettera doveva percorrere brevi tratti assicurando la ricezione entro tre giorni dalla spedizione.
Negli anni Ottanta Postalmarket e Vestro fatturano in Italia 1000 miliardi di lire, cioè 1.473 milioni di euro (valore 2018) l’anno. Impiegano circa 2.980 dipendenti al netto delle spedizioni, affidate al sistema postale. Versano il 14,4% di imposte, pari a 212 milioni di euro in valuta attuale.
Amazon Italia non diffonde cifre ufficiali ma alcune stime attestano il fatturato in 1,5 miliardi di euro. Considerando anche il secondo distributore, ePrice, siamo intorno ai 2 miliardi di euro. Quanto alle tasse versate, dopo un lungo contenzioso, Amazon avrebbe versato circa 100 milioni. Considerando anche ePrice, sarebbero stati versati circa 140 milioni di euro, ma le cifre comunicate fanno riferimento al triennio 2014-2017. 70 milioni l’anno, pari al 2,3% del fatturato.
Facendo un raffronto con il commercio cartaceo degli anni Ottanta, a fronte di un raddoppio del fatturato, il ritorno in tasse si è ridotto dell’84%.
Si dirà che c’è un ritorno diverse in termini di dipendenti: Amazon ed ePrice coinvolgono circa 3.700 dipendenti più 15.000 interinali. La paga media è di 1.394 euro e 594 euro per gli interinali (considerando un impiego di 4 mesi l’anno). Il totale è di 174 milioni l’anno. Tra tasse e lavoro, l’e-commerce attuale lascia sul territorio 221 milioni di euro: l’11% del fatturato.
Postalmarket e Vestro, nel momento d’oro, coinvolgevano 2.980 dipendenti con una paga media (fattore 2,583) pari a 1.871 euro di oggi. Il totale è 73 milioni l’anno. Tra tasse e lavoro, il tele-commercio lasciava sul territorio 285 milioni di euro: il 19,3% del fatturato.
La digitalizzazione ha raddoppiato il fatturato ma impoverito i territori. Ma in questa breve analisi abbiamo considerato solo il cash-flow degli esercenti. In realtà ci sono dei costi che restano inespressi ma che sono altrettanto indicativi: se Postalmaket e Vestro arrivarono a gestire 60.000 spedizioni giornaliere, oggi l’e-commerce muove in media 240.000 spedizioni. Le consegne, oggi come allora avvengono esclusivamente su strada: anche tenendo conto che l’impatto in termini di emissioni nocive della trazione termica si è ridotto del 60% e del 30% quello acustico, le esternalità lasciate sul territorio sono aumentate di 2,5 volte. È probabile che la progressiva elettrificazione ridurrà questo incremento, ma resterà l’impatto sulla congestione. A proposito della congestione, bisogna considerare che, a fronte di un tempo di consegna di Vestro e Postalmarket che non scendeva sotto una settimana, queste erano svolte via posta quindi ottimizzando più viaggi su uno stesso corriere. Oggi che l’obiettivo è quello delle consegne in giornata, più ordini differiti in uno stesso civico, sono svolti ognuno con un corriere. Questo perché un sistema di ottimizzazione ulteriore non è economicamente vantaggioso né possibile in termini temporali: l’ordine va in lavorazione in tempo reale. Quindi un ordine, una spedizione.
Il costo dell’automazione
Torniamo all’esempio del secondo paragrafo, dell’automazione completa della mobilità della porzione di area urbana di Roma compresa entro il Grande Raccordo Anulare.
Ci vorrebbe una flotta di 114.730 veicoli. Ma a quale prezzo?
Le informazioni non sono molte a riguardo: nel 2014 si parlava di 250.000 euro, poi 170.000. Google ha parlato di 70.000 euro: prendiamo per buono questo costo. Il costo annuale in tasse e assicurazioni è riassumibile in circa 1.500 euro (l’automazione aumenta la complessità dei componenti e l’assicurazione tiene conto anche di questo).
Il consumo energetico (trazione elettrica) è stimato in 0,03 euro per posto km; la manutenzione ordinaria in 0,15 euro al km per un totale di 0,72 euro per vettura km.
Ammettiamo che ogni auto percorra circa 650 km al giorno, per 350 giorni fanno 227.500 km anno.
Ammettiamo anche che la durata di un singolo veicolo sia di circa 300.000 km, visto che la trazione elettrica esercita minori sollecitazioni ed è più efficiente di quella termica.
Si trova un costo complessivo di:
70.000 + 1.500 + 300.000 x 0,72 = 287.500 euro pari a 0,96 euro/km
Che riportato ad un viaggio medio di 10,4 km e aggiungendo un minimo di ricavi del 10% si trova un costo di almeno 11 euro per viaggio.
Chi paga?
Prima di spaventarsi è bene ricordare che non c’è solo il vil denaro. C’è anche l’oro blu cioè i nostri dati: viaggiare significa vivere una esperienza di viaggio, cioè dedicare almeno 20 minuti del proprio tempo (nell’esempio) ad attività ludiche oppure di lavoro. Ma svolte sotto l’occhio vigile del gestore del servizio di trasporto: come Facebook, ad esempio, ci concede l’accesso gratuito nonostante il costo di gestione annuale di un singolo account sia stimato in almeno 250 $ così potremmo pagare parte o tutto il nostro viaggio nei futuri veicoli automatici accettando la vendita di altri servizi oppure cedendo i nostri dati e le nostre sensazioni.
L’importante è farlo con consapevolezza.
Certo, un dubbio potrebbe essere quello di chiedersi perché non ci siano soggetti pubblici a svolgere un simile servizio oppure in parte a tentare di entrare nel mercato della mobilità del futuro. Anche in questo caso non resta che guardare al passato: al tempo del tele-commercio il core-business, cioè la consegna dei pacchi, era completamente affidata al servizio postale. Eppure, dopo la crisi di Vestro e Postalmarket e il crollo delle spedizioni di lettere e cartoline le poste hanno pensato bene di smantellare una rete che copriva il 99,9% del territorio. Lo hanno fatto giusto un momento prima del boom dell’e-commerce: mancanza di lungimiranza?
A una quindicina di anni di distanza questa miopia sembra ripetersi: tutti parlano di imminente rivoluzione del mercato della mobilità ma nessuna amministrazione o ente pubblico vede al di là dell’aprire le proprie strade a grandi corporazioni internazionali. Mentre non si pensa nemmeno a favorire l’automazione dove già non sarebbe certo una novità, ovvero nelle linee metropolitane: su 230 km di linee, attualmente in esercizio, appena il 25% è automatizzato.
La ricerca dell’efficacia
Il mondo contemporaneo si trova ad affrontare tre grandi sfide, rovescio della medaglia del progresso tecnologico che ha permesso alla specie umana di raggiungere una numerosità e una aspettativa di vita impensabili fino ad un secolo fa. Sfide legate all’impatto a scala planetaria delle attività antropiche e delle scelte quotidiane: il surriscaldamento climatico; il collasso della biodiversità; la perdita di suolo fertile. Vista l’inefficacia delle innumerevoli misure proposte, la proposta del biologo E.O. Wilson appare sempre più come l’unica strada da percorrere: destinare metà del pianeta agli umani e metà ad una immensa e inviolabile riserva di wilderness involabile. S’intende la metà selvaggia sarebbe una rete di vasti territori protetti o lasciati ri-naturalizzarsi: per contro i territori antropizzati andrebbero completamente riorganizzati lavorando sulla densificazione.
Il primo effetto della globalizzazione è stato quello di trasformare la competizione tra Stati in una koinè urbana: necessariamente la via per ridurre l’impatto delle attività umane passa per il trasformare le città non solo nei luoghi dell’efficienza ma anche del buon vivere.
Per questo è il momento della sostenibilità urbana. Il miglioramento della sostenibilità dell’abitare, così come della sostenibilità dei processi produttivi, visti nella loro fissità risponde solo parzialmente al problema della mitigazione del consumo di risorse nei cicli circadiani. Inquadrare dinamicamente ogni elemento (casa-lavoro-servizi) all’interno del ciclo relazionale che li unisce permette di elaborare una soluzione di sostenibilità che non sia mirata solo agli estremi ma che ottimizzi il processo stesso, con un beneficio che non sarà solo legato tutto all’abitare o tutto al luogo di lavoro ma a quel complesso sistema relazionale che è la vera forma delle città. In questo modo l’analisi e la gestione delle abitudini quotidiane nella scelta dei modi di trasporto (descritti dalla ripartizione modale) permettono non solo di misurare ma di agire sulle esternalità prodotte. Se tutti i processi vengono analizzati e ottimizzati in quest’ottica – dai flussi pendolari più elementari al trasporto delle merci – la città diventa il vero luogo della sostenibilità, perché concentra usi e risorse.
Ora il modello urbano prevalente – il caso italiano è assolutamente emblematico – vede il territorio abitato un continuum isotropo, la marmellopoli: la città fatta di tipi edilizi molto semplici spalmati sul territorio non per rispondere ad una domanda pregressa ma per spremere valore (sempre meno) dal processo costruttivo. Uno sviluppo distopico che ha avuto due effetti destrutturanti: rarefazione della densità territoriale; indebolimento delle funzioni urbane.
Per questo l’automobile viene ad esercitare una funzione fortemente corrosiva sul tessuto urbano. L’implosione dei centri storici è dovuta al prevalere della regola della strada: il traffico tende infatti a ridistribuirsi in maniera uniforme su tutta la rete, rifluendo dai nodi più congestionati. Se le attività produttive si trovano a inseguire questa ridistribuzione, non troveranno nessun impedimento nello spostarsi verso aree più accessibili. Se questo processo trova campo libero, la città viene ribaltata: ai centri medioevali e rinascimentali (non progettati per l’automobile) risulteranno più appetibili le sterminate periferie in cui ci si può spostare anche attraverso ampie strade di scorrimento.
All’isotropia territoriale corrisponde però una pianificazione anisotropa del trasporto centrata solo sulle esigenze delle aree urbane centrali. Il fattore che più di ogni altro ha avuto – ed ha – un ruolo primario in questo fenomeno risiede nel non aver impedito che la mobilità privata prendesse il sopravvento. Al contempo, nella civiltà dell’informazione, la città ha smesso di esistere come mero luogo fisico costruito per smaterializzarsi sul territorio in un cloud di flussi di persone, merci, informazioni. Urbs e civitas, per la prima volta nella storia, sono completamente disgiunte: questo stato delle cose cozza con la materialità delle infrastrutture. Il cardine della nuova questione urbana è qui: l’automobile ha permesso l’urbanizzazione diffusa del territorio, il trasporto pubblico di massa non permette l’utilizzo diffuso delle città. L’uso del mezzo privato assume carattere di ovvietà mentre il mezzo pubblico resta relegato allo stato di costrizione.
Alcuni ritengono che il trasporto di massa possa rivelarsi desueto nelle prossime decadi. L’automazione sta per fare il suo ingresso massiccio nella quotidianità: quello in corso è un periodo simile alla fine degli anni Ottanta del Novecento con l’arrivo della telefonia mobile e internet. In sintesi, è ormai prossimo un salto quantico degli stili di vita. Ma la tecnologia ha ancora molti limiti. Per esempio, non è possibile riprodurre la fotosintesi clorofilliana, che a fronte di una efficienza di trasformazione molto bassa (1-2%) ha un ritorno energetico (EroEi) superiore a qualunque processo energetico sviluppato dall’uomo. Non è ancora possibile sviluppare reti di comunicazione efficienti come le ife dei funghi che realizzano efficientissime reti di comunicazione tra gli alberi di una foresta vaste decine di km, con una bassissima richiesta energetica. Resta quindi il limite dell’inviolabilità del Secondo principio della Termodinamica: ogni processo energetico comporta la degradazione di una parte dell’energia impiegata.
Il cervello umano ha una potenza di calcolo compresa nell’ordine di 1012 operazioni al secondo: 1 Tera Flops ovvero mille miliardi di operazioni al secondo. Per questo ha bisogno di 2.500 kCal al giorno (2,9 kWh), ovvero, in termini di quantità di glucosio di un equivalente di 2.5-3.0 kg di riso bollito. Significa di 6,5 euro al giorno di energia. Una equivalente intelligenza artificiale (IA) necessita di migliaia di kWh al giorno: ad oggi parliamo di 1,0 MWh al giorno che, stante il miglioramento tecnologico, dovrebbero scendere a 20-30 kWh all’orizzonte 2030. Per una vera rivoluzione dovremmo attendere la commercializzazione degli elaboratori quantistici, da alcuni analisti traguardata almeno al 2030.
Oggi le auto automatiche hanno un dispendio energetico considerevole: alcuni modelli in corso di sperimentazione sono gestite da una logica da 400 GFlops che al netto del movimento per compiere gli spostamenti compiuti mediamente in una grande città consuma circa 50 euro di kWh elettrici. Un consumo che al 2030 è stimato scendere almeno di un ordine di grandezza, ma si presume che aumenterà anche la potenza di calcolo della logica di controllo. Per questo il Rasoio di Occam sarà sempre valido: in città che saranno più simili alle Delhi, Tokyo, Canton o Jakarta di oggi, la circolazione non potrà essere fatta di sole vetture libere ma dovrà essere ottimizzata su corridoi ad elevata capacità.
Al di là della narrazione mediatica, oggi totalmente gestita da imprese commerciali, è opportuno sollevare alcuni dubbi. Se le imprese commerciali svolgono il loro legittimo lavoro, cioè inventare nuovi prodotti per acquisire nuove fette di mercato, l’assenza di una riflessione critica degli amministratori – nazionali e locali – comincia ad essere sconcertante.
Nonostante molte amministrazioni facciano a gara per ospitare nel proprio territorio sperimentazioni di veicoli automatici, la Commissaria europea ai trasporti è stata piuttosto chiara. Non ci sarà mai compresenza: l’automazione completa non arriverà mai nelle nostre strade assieme alla guida manuale. Questo per evitare tutta una serie di problemi di convivenza tra sistemi controllabili in remoto e l’imprevedibilità delle decisioni umane. E resta da risolversi un’altra compresenza inevitabile, quella con pedoni e ciclabili, ad esempio, che probabilmente sarà gestita con sistemi di separazione tra i rispettivi spazi più o meno fisici.
Una strada ancora lunga: tanto che la stessa Commissaria ha parlato di 2045-2050 per l’ingresso dell’automazione su vasta scala.
Ora sappiamo bene che la tecnologia sta facendo passi da gigante: lo vediamo ad esempio con le batterie e la formula E. Solo 10 anni fa sarebbe stato impensabile organizzare gare di formula 1 con macchine elettriche. Perché non fare lo stesso con l’automazione?
Piuttosto che ripetere alcuni errori compiuti nel passaggio da tele-commercio all’e-commerce, Governo e Amministrazioni potrebbero partecipare attivamente all’introduzione dell’intelligenza artificiale nella quotidianità.
Ad esempio, perché non automatizzare il controllo del traffico? Dotare i passaggi pedonali di telecamere che rilevino – non necessariamente con sanzioni ma anche con un suono piuttosto che con un lampo – la compresenza pedone/automobile ridurrebbe sensibilmente il rischio di investimento. In Svizzera, tra il 1990 e il 1995, l’introduzione diffusa di sensori a infrarossi per il sanzionamento della “compresenza” ha ridotto del 90% gli investimenti di pedoni.
Una automobile ha tre gradi di libertà: due direzioni, il tempo ovvero la velocità.
Introdurre in maniera obbligatoria, sistemi a controllo satellitare che impediscono in maniera automatica alla vettura di superare i limiti di velocità, ridurrebbe secondo alcune stime, del 60% l’incidentalità nelle città. Ce ne sono molti in commercio, si pensi che il primo brevetto italiano è del 2009.
Il controllo adattivo della velocità di crociera, poi, aiuterebbe a mantenere la corretta distanza di sicurezza: diventerebbe impossibile superare i limiti di velocità, con benefici sia per la sicurezza che per la congestione (ridurre la velocità aumenta la capacità stradale).
Insomma, con una automazione di grado 3 su 5 (dove 5 è l’automazione integrale) si potrebbe it et nunc ridurre la congestione e aumentare drasticamente la sicurezza della circolazione. Si tratta di introdurre l’obbligatorietà progressiva (a partire dai nuovi modelli) dell’Adaptive Cruise Control (ACC) che agisce in due modi:
- a flusso libero limita la velocità a quella imposta dalla segnaletica (attraverso il controllo satellitare);
- nel traffico limita la velocità imponendo la corretta distanza di sicurezza dal veicolo che precede.
Ma se l’IA applicata a tre gradi di libertà è complessa e necessita ancora di essere migliorata, ridurre i gradi di libertà dovrebbe facilitarne l’applicazione. Un treno ha praticamente tutti i gradi di libertà predeterminabili al netto delle perturbative esterne: se l’IA nelle auto è prossima come molti dicono, perché non si sta procedendo con l’automazione integrale del trasporto ferroviario?
Perché ci sono ancora molti aspetti da approntare, non ultimo quello legale di risoluzione delle controversie in caso di incidente: chi avrà compilato un modulo di constatazione amichevole di incidente (cid) sa quanto possa essere difficile la mutua attribuzione delle responsabilità. E chi si occupa di sicurezza nei trasporti sa quanto la moltiplicazione dei soggetti (Stato, Regione, gestore, proprietario dell’infrastruttura, imprese di manutenzione, produttore dei singoli pezzi dell’infrastruttura) renda estremamente complessa la fase successiva ad un evento lesivo. Una complessità che si riflette sull’esercizio, talvolta anche con il sequestro giudiziario.
Un aspetto che è emerso recentemente nei casi di sinistri verificatesi con mezzi a guida autonoma: sia chiaro, non si tratta di elementi insuperabili. Ma tra il non fare e il prevedere prossima l’automazione completa della mobilità c’è tutta una serie di passi ancora da compiere.
Probabilmente sarebbe il caso, come sempre, di mantenere un po’ di grano salis ma soprattutto un sano realismo. Dedicandosi sia al supporto alla ricerca nel campo dell’IA e dell’automazione ma anche nella pianificazione delle città e del trasporto pubblico di massa. Che si trasformerà sicuramente, ma che non smetterà di avere un ruolo fondamentale nell’unire efficacia ed efficienza. Nel contenere i consumi energetici e l’impatto della mobilità, nello strutturare i territori e nell’ottimizzare il consumo di spazio. Perché una delle sfide future è quella di rendere più attraenti e vivibili le città e per questo è necessario sottrarre spazio all’asfalto da restituire alla mobilità dolce e ad un uso differente che non sia quello della sosta delle automobili. Spazio da dedicare anche alla reintroduzione di elementi naturali in città: per assorbire e smaltire le piogge improvvise, per aumentare il controllo termo-igrometrico.
Ora più che mai è necessario pensare a città per i bambini e gli innamorati e non per le automobili (Lewis Mumford).
Linkopedia
Strategia UE sull’automazione
Nature, articolo di Barbara Norman sull’automazione della mobilità urbana
NLC – National League of Cities, il punto sulla legislazione dell’automazione
SAE – Society of Automotive Engineers, guida completa all’automazione
Tesla, prototipo a guida autonoma
Torino, protocollo d’intesa per la sperimentazione della guida autonoma
Uber, sperimentazione in corso a Pittsburgh (Pennsylvania, USA)
Waymo, prototipo in sperimentazione a Tempe (Arizona, USA)
Wired, la guida completa allo stato dell’arte della guida autonoma