La legge n. 56/2014 (c.d. “Legge Delrio”) è stata concepita come “ponte” fra la Costituzione vigente e quella che avrebbe dovuto vedere la luce con l’entrata in vigore della riforma “Renzi-Boschi”, delineando, per la prima volta in Italia, due livelli di governo basati su un sistema di democrazia di secondo grado, ed attribuendo ad essi diversificati ruoli e finalità in un quadro coerente e armonico. Da una parte, infatti, la legge affida alle Città metropolitane il compito strategico di promozione dello sviluppo del proprio territorio, anche e soprattutto dal punto di vista infrastrutturale e dei rapporti internazionali, in una logica proiettata verso il futuro e caratterizzata da dinamismo e relazionalità; dall’altra parte, attribuisce alle Province, enti di area vasta, poche funzioni fondamentali, lasciando, di conseguenza, che la loro identità – soprattutto quando, a séguito della riforma del Titolo V, perderanno la copertura costituzionale – dipenda, in larga parte, dalle scelte che saranno adottate in modo differenziato a livello regionale.
Ora il percorso iniziato nel 2014 s’é infranto sull’esito negativo della consultazione referendaria del 4 dicembre 2016.
Le Città metropolitane sono appena abbozzate, le Province non sono state abolite e le Regioni sono 20 entità fortemente eterogenee. Come si può ragionare di contenuti se i contenitori sono tutt’altro che definiti?
I limiti della Legge 56/2014
Lasciando da parte discussioni campanilistiche la 56/2014 lascia adito a molte perplessità: le Province sono una struttura territoriale molto più antica delle Regioni che restano un’invenzione del secondo Novecento. Seppure successivamente – ed eccessivamente – frazionate le Province serbano una memoria storica nata con i Ducati sette-ottocenteschi (come le province emiliane) oppure risalente ai Regni pre-unitari come le province piemontesi o quelle meridionali. Questo è un primo punto che giustifica le rimostranze della popolazione a certi cambiamenti amministrativi ma anche il maggiore attaccamento all’istituto provinciale che a quello regionale perché maggiormente legata all’identità e all’appartenenza al luogo natio.
Il fattore storico di per sé non è un elemento positivo in senso assoluto: nasconde un certo anacronismo perché i territori sono in continuo mutamento. Molte divisioni amministrative oggi non hanno senso perché, ad esempio, non contengono più al loro interno le città capoluogo: né Province né Regioni sono state aggiornate alla nuova forma urbana italiana che ha modificato completamente il territorio a partire dal secondo Novecento.
Oggi le Regioni definite nel 1947 non garantiscono più in maniera efficiente il controllo e la promozione dei territori rappresentati perché questi si sono trasformati, in alcuni casi variando completamente la loro natura. Queste trasformazioni ha investito maggiormente le Province, elemento fondamentale perché investito dall’art. 114 della Costituzione di coordinare e omogeneizzare lo sviluppo e il funzionamento di un territorio.
Una riforma non può seguire meri criteri geomorfologici: i confini sono più di un segno sulla carta. Il risparmio per la Pubblica Amministrazione può ottenersi solo se si ottimizza l’esercizio della Governance e lo sviluppo di un territorio e non certo riducendo il numero di strutture rappresentative.
Basti guardare all’istituzione delle province o città metropolitane: non si può prendere tal quale una divisione amministrativa preesistente e avere garanzia che il nuovo Ente riesca ad assolvere il compito di sostenere e coordinare lo sviluppo di una grande metropoli. La provincia metropolitana di Torino è un territorio vastissimo, che include la zona urbana estesa di Torino ma anche impervie valli alpine: le esigenze sono completamente differenti e le risposte che si forniranno potrebbero essere sbilanciate verso l’area più forte – quella urbana – condannando le zone più remote a dipendere dall’area centrale. Difficilmente in consiglio provinciale metropolitano si parlerà dei problemi delle valli alpine o dei metodi di sviluppo sostenibile delle zone rurali se il 98% della popolazione risente solo dei problemi del traffico metropolitano. Al contrario Milano e Napoli vedono la rispettiva provincia metropolitana decurtata di lembi cospicui della zona urbana estesa: come può, ad esempio, discutere del Piano di Trasporto di Napoli se la città metropolitana lascia fuori l’agro aversano e il nocerino? Oppure del Piano Metropolitano di Gestione dei Rifiuti se il 30% della area urbana contigua resta nella nuova provincia dell’Alta Lombardia?
Questa suddivisione mostra altri limiti: nella definizione delle Province Metropolitane non si sono adottati criteri tecnici ma spesso è la politica ad aver preso il sopravvento. Eppure se si fosse demandato all’ISTAT un aggiornamento dello studio del 2004 sui Sistemi Locali del Lavoro , ci si sarebbe accorti che da troppo tempo oramai si sta trascurando la nuova struttura urbana e metropolitana italiana.
Come può Venezia essere da sola città metropolitana, quando Padova ha un’area urbana più grande? E quando ormai tutti gli urbanisti sono d’accordo nel considerare l’area centrale veneta formata da Venezia, Padova e Treviso come un’unica area urbana? Per rimanere sempre in Veneto, come si può trascurare il ruolo metropolitano di Verona, cerniera tra Milano e la stessa area centrale veneta? Verona che ha un’area urbana più grande di Cagliari che invece è città metropolitana.
D’altro canto Bologna è città metropolitana con 908mila abitanti, ma non lo sono né l’area Mediopadana formata da Modena, Reggio Emilia e Parma con 1,2 milioni di abitanti né la Romagna con 1,1. Eppure entrambe hanno ormai connotazioni territoriali di metropoli diffusa sul territorio (con tutti i pregi, pochi, e i difetti in termini di consumo di suolo e pianificazione dei servizi). Ma nemmeno Brescia è città metropolitana con un’area urbana di 629mila abitanti, più grande di Bari (615 mila) e Catania (586 mila) che invece lo sono.
Pochi spunti di riflessione per dire che si è persa un’altra occasione per coinvolgere l’Istat, le Università e gli altri istituti di ricerca in un vasto programma di studio del territorio prima di programma una riforma che tenesse conto della nuova forma urbana del Paese.
La divisione vigente
Il territorio italiano è suddiviso in Regioni, Province e Comuni: l’art. 114 della Costituzione sancisce questa ripartizione e assegna a ciascun ente i rispettivi compiti di governo e poteri amministrativi. Le Province, dopo i Comuni, sono l’istituto di governo più antico: storicamente compaiono nell’Impero Romano come amministrazione dei territori conquistati per mantenersi, come aggregato di più comuni non necessariamente contigui, sino all’età moderna. Nella loro forma attuale vengono legittimate dal Regio Decreto 3702 del 23 ottobre 1859 – già decreto Rattazzi – che individua come corpus amministrativo le Province, i Circondari, i Mandamenti e i Comuni. Vengono istituite 55 Province (ma, a quel tempo, mancano ancora diversi territori perché il Nordest è ancora sotto il dominio austriaco mentre parte delle zone centrali sono ricomprese nel territorio della Chiesa).
La prima riforma delle province si realizza il 3 gennaio 1927 con il RD 1/1927 sul “Riordinamento delle Circoscrizioni provinciali”: vengono istituite 11 nuove province quasi tutte nel Centrosud. Dal dopoguerra ad oggi le province non fanno che aumentare sino a raggiungere il numero di 110: è con l’istituzione di Monza che si tocca l’estensione minore e, senza volere, si manda in crisi l’istituzione provinciale stessa: con 405 km quadrati per 842 mila abitanti (1/1/2012) si tratta in realtà di un’area urbana, la Brianza, ricomprese nella più vasta area urbana milanese.
Le Regioni sono molto più recenti: sono istituite il 13 dicembre 1947 dalla “Commissione per la Costituzione” che ne sancisce numero ed estensione nell’art. 22 della Costituzione stessa. Con la sola nascita del Molise dagli Abruzzi si mantengono inalterata sino ad oggi.
Attualmente il Paese è diviso in 20 Regioni e 105 Province. Province che, ridotta al noto “velo istituzionale” in vista della Riforma “Renzi-Boschi” continuano a esistere seppure fortemente depotenziate.
La proposta: le aggregazioni comunali
Nella koiné urbana internazionale la competitività di una città – anche come luogo del buon vivere – è ormai universalmente misurata in termini di densità territoriale, densità e mix funzionale . È questa l’ottica in cui si deve guardare per riformare le Province e ottenere l’unica e vera spending review: quella che abbatte il debito incrementando il PIL territoriale.
Ripartendo dal concetto elaborato dall’ISTAT nei Sistemi Locali del Lavoro per la definizione di area metropolitana, arricchito a livello di area urbana dal concetto più volte richiamato nei nostri scritti, di urbanismo e cluster urbano si può ridisegnare la mappa amministrativa italiana partendo dal livello più basso, quello comunale. Uno dei primi punti di risparmio economico può essere quello dell’accorpamento comunale declinato però non sui comuni montani o rurali, poco abitati, su cui già grava il peso amministrativo di territori vastissimi e spesso impervi ma su quelli agglomerati. Se l’accorpamento dei comuni appenninici, ad esempio, rappresenta un danno per la salvaguardia delle comunità locali così come dell’ambiente (in tal senso ricordiamo che un comune deve gestire persone ma anche territori e quindi ambiente, e questa salvaguardia non è possibile se si creano comuni di centinaia di km2 con risorse esigue solo perché i residenti sono poche migliaia) diventa una grande opportunità nelle grandi aree urbane ormai amministrativamente polverizzate, come Milano, Napoli, Torino e anche Roma. Se la città decide per servizi di primaria importanza come trasporti, asili e gestione dei rifiuti come potrà essere efficiente e funzionale un sistema che mette Roma in condizione di non collaborare con Ciampino (piccolo comune contiguo al quartiere romano di Morena) oppure Milano con Sesto San Giovanni o, ancora Napoli con S. Giorgio a Cremano e Pozzuoli?
È necessario importare in Italia l’esperienza francese delle Communauté Urbaine e delle Communauté d’Agglomeration. Parallelamente possono definirsi Comunità (di Comuni) Metropolitane la città capofila e la prima o seconda cerchia di comuni caratterizzati da contiguità dell’edificato che superano i 500mila abitanti. Le Comunità (di Comuni) Urbane sono invece quelle con una popolazione totale compresa tra 200 e 500mila abitanti.
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Guardare alle città nella loro reale dimensioni multi-amministrativa significa definire i fabbisogni e pianificare i servizi in maniera adeguata alla realtà: ad iniziare, ad esempio, dai Piani Urbani della Mobilità Sostenibile (Pums).
Mantenendo per quanto possibile la struttura storica consolidata delle Province si può procedere a ridefinirne i confini prima di tutto in modo che le Comunità Metropolitane abbiano un adeguato spazio metropolitano: se la Comunità è la Zona Urbana Vasta (o l’urbanismo, cioè il corpo urbano) la Provincia Metropolitana ne è l’Area Metropolitana o quanto meno il nucleo di tale area (se questa è molto vasta, come nel caso di Milano, può non essere sostenibile in termini organizzativi ed economici accorpare insieme un territorio sovra regionale).
A questo punto si ridefiniscono le Regioni: come al tempo della loro istituzione nel 1947, anche nel 2019 esse devono poter continuare a rappresentare e sostenere un territorio in maniera adeguata e per far questo devono tenere conto della forma attuale del territorio.
La proposta: la nuova ripartizione regionale
Da una analisi storica della suddivisione amministrativa e da una attenta analisi dei rapporti funzionali tra i territori si possono individuare 13 Regioni in luogo delle 20 attuali.
Nordovest
Formato dal Piemonte, dalla Liguria e dalla Valle d’Aosta (che diventa provincia autonoma, così come sono autonome le due province della ex Liguria). La provincia di Novara passa alla Lombardia perché fortemente relazionata a Milano. La provincia di La Spezia è annessa alla Toscana perché funzionalmente legata alla Versilia.
Lombardia
Formata dalle attuali province Lombarde più quella di Novara e Piacenza per il loro forte legame funzionale con Milano; il basso Mantovano è annesso a Verona.
Nordest
Formata dalla fusione di Veneto, Trentino-Alto Adige/Südtirol e Friuli-Venezia Giulia. La provincia di Rovigo è annessa a Ferrara, nel Polesine.
Emilia-Romagna
Invariata rispetto all’attuale a meno dell’esclusione della provincia di Piacenza (Lombardia) e dell’inclusione della provincia di Rovigo.
Toscana
Rispetto alla forma attuale annette La Spezia nella Versilia e l’Alto Viterbese.
Centro
Nuova regione che tiene conto delle peculiarità e delle esigenze delle aree appenniniche centrale. È formata dall’Umbria, dalla provincia di Rieti e dall’Aquila. Un territorio estremamente omogeneo: si pensi che l’unica ferrovia oggi esistente a Rieti e L’Aquila è proprio quella che le unisce a Terni e quindi Perugia.
Adriatica
Nuova regione formata dalla fusione di Marche a Abruzzo (ad esclusione dell’Aquilano).
Roma
La capitale diventa regione autonoma come in tutti i grandi Paesi europei. È formata dall’attuale provincia di Roma più Civita Castellana e il basso Viterbese; Fara Sabina e la Bassa Sabina (oggi Rieti); Aprilia, Latina e l’Agro Pontino sino a Terracina; Frosinone e l’Alta Ciociaria.
Campania
Alla struttura attuale si aggiunge Formia e porzione meridionale della provincia di Latina; Cassino e la bassa Ciociaria (oggi Frosinone) e la provincia di Potenza.
Puglia
Formata dall’attuale territorio pugliese più il Molise e la provincia lucana di Matera.
Calabria
Invariata rispetto all’attuale.
Sicilia
Invariata rispetto all’attuale.
Sardegna
Invariata rispetto all’attuale.
Likopedia
La Riforma del Titolo V
Istat, Sistemi Locali del Lavoro
Istat, Forme e livelli dell’urbanizzazione in Italia
Società geografica italiana: studio sul riordino delle suddivisioni territoriali dell’Italia (2015)