Dopo due anni di rinvii, il ministero dell’Ambiente ha inviato al Cipe il piano nazionale per la riduzione delle emissioni dei gas serra fino al 2020. Il documento presentato al Comitato interministeriale per la programmazione economica indica che l’Italia quest’anno emetterà 501,9 milioni di tonnellate equivalenti di CO2, pari a +18,6% rispetto all’obiettivo fissato da Kyoto, che prevedeva invece una riduzione del 6,5% tra il 2008 e il 2012 rispetto al livello del 1990. Per il 2020, il documento stima una differenza di 14,3 milioni tonnellate equivalenti di CO2 per le emissioni che non rientrano nel sistema di scambio dei permessi di emissione (Ets). Il fondo rotativo previsto dal protocollo di Kyoto sarà rifinanziato con circa 250 milioni di euro l’anno tra il 2013 e il 2020. Avviato il 15 febbraio scorso ha visto un vero e proprio boom di richieste. Si tratta di un capitolo che mette a disposizione 600M€ (per quest’anno) da distribuire in finanziamenti al tasso agevole dello 0,5% per un periodo massimo di 6 anni, a disposizione di cittadini, imprese, condomini, soggetti pubblici e fondazioni, per realizzare interventi di riduzione delle emissioni di gas serra. L’Italia inizia quindi, con grande ritardo rispetto ai grandi Paesi occidentali e non solo, a studiare una politica di più ampio respira sulla programmazione energetica e ambientale ma molto, molto resta da fare dopo che per un ventennio si è andati avanti a vista. Sarebbe troppo facile se bastasse sterzare alla vista dei primi scogli.
Cos’è il Protocollo di Kyoto?
Si tratta di un accordo internazionale in materia ambientale sui cambiamenti climatici, adottato a Kyoto, in Giappone, nel 1997, durante la Terza Conferenza delle Parti (COP3) della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite. Il Protocollo è entrato in vigore il 16 febbraio 2005 a seguito della ratifica della Russia. Per l’entrata in vigore, il Protocollo doveva essere infatti ratificato da almeno 55 paesi, tra i quali un numero di Paesi industrializzati (1) che nel 1990 avevano emesso almeno il 55% della CO2 eq. totale. Attualmente, tra i Paesi industrializzati, solo gli Stati Uniti non hanno aderito al Protocollo di Kyoto. L’Italia ha ratificato il Protocollo con la legge n. 120 del 1 giugno 2002. Il trattato, che rappresenta il primo strumento di attuazione della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, prevede il vincolo per i Paesi industrializzati di ridurre le emissioni dei gas serra del 5,2% nel periodo 2008 – 2012 rispetto alle emissioni del 1990. Il Protocollo non prevede impegni per i Paesi in Via di Sviluppo in osservanza del principio di equità.
Il 1° gennaio 2008 è iniziato il periodo di adempimento del Protocollo di Kyoto. Quali sono gli obblighi per l’Unione Europea e l’Italia?
Per l’Unione Europea il Protocollo di Kyoto prevede un taglio delle emissioni di gas serra dell’8% rispetto alle emissioni del 1990. Stando all’ultimo Rapporto dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (“Greenhouse gas emission trends and projections in Europe 2007”) le emissioni dell’UE15 nel 2005 sono state ridotte del 2% rispetto ai valori del 1990. Il Rapporto prevede anche che l’Unione Europea, nel caso dia attuazione a tutte le misure aggiuntive previste, è in grado di rispettare gli impegni di riduzione. L’Italia deve ridurre le sue emissioni di gas serra nel periodo 2008 – 2012 del 6,5% rispetto al 1990 ovvero a 483 Mt CO2eq. Gli Stati membri con maggiori difficoltà a rispettare i propri impegni sono la Danimarca, la Spagna e l’Italia, che rappresenta il terzo paese emettitore dell’Unione europea.
In caso di inadempienza agli obblighi previsti dal Protocollo di Kyoto sono previste delle sanzioni?
Il meccanismo sanzionatorio definito all’interno del processo attuativo del Protocollo di Kyoto (decisione 27/CMP.1), si propone di facilitare, promuovere e rafforzare il rispetto degli impegni fissati dal Protocollo, assicurando al tempo stesso trasparenza e credibilità al sistema. Essendo il primo strumento messo in atto per raggiungere gli obiettivi della Convenzione e viste anche le difficoltà nel raggiungere un accordo tra le Parti, si è scelta una linea strategica non orientata a sanzionare economicamente gli Stati in maniera diretta ma a responsabilizzarli in vista, anche, dei periodi di impegno successivi. Nel caso di mancato rispetto dell’impegno di riduzione delle emissioni, il Protocollo di Kyoto prevede dunque l’applicazione delle seguenti sanzioni:
- maggiorazione del 30% sulla quantità di emissioni che mancano al raggiungimento dell’obiettivo, addebitata in aggiunta agli obblighi che verranno stabiliti nel secondo periodo d’impegno;
- obbligo di adozione di un piano d’azione per il rispetto dei propri obiettivi;
- può essere disposta la sospensione dalla partecipazione all’emissions trading.
Nel caso di mancato rispetto degli impegni di riduzione negoziati con il Burden Sharing Agreement (2), i Paesi membri dell’Unione europea potranno inoltre essere soggetti ad una procedura di infrazione su iniziativa della Commissione. Anche se il Protocollo di Kyoto non prevede sanzioni economiche dirette, il mancato raggiungimento degli obiettivi risulta particolarmente oneroso in termini di credibilità internazionale, appesantimento degli obblighi nel secondo periodo di impegno e il rischio di non partecipare all’emissions trading.
Secondo il documento presentato dal Ministero dell’Ambiente, l’Italia sforerebbe gli obietti di Kyoto per un valore di circa 19Mt di CO2eq, ponendosi a una riduzione del 3% rispetto al valore del 1990 in luogo del 6,5%. Ma i conti non sono chiusi perché sono ancora in corso i rilievi della superficie forestale nazionale, che negli ultimi 20 anni è aumentata di 1,7 milioni di ha raggiungendo i 10,4 milioni di ha. I dati sono stati riportati dall’Inventario Nazionale delle foreste e dei serbatoi di carbonio del Corpo forestale dello Stato. All’analisi ha partecipato il team scientifico del Consiglio per la ricerca e la sperimentazioni in Agricoltura, l’Unità di ricerca per il monitoraggio e la pianificazione forestale di Trento. Dodici miliardi di alberi sono capaci di trattenere una quantità di carbonio pari a 1,2 miliardi di t, equivalenti a 4 miliardi di t di CO2.
L’obiettivo finale della riduzione del 6,5% non sarebbe comunque raggiunto, fermandosi alla soglia del 4%.
Ma perché è così importante cercare di ridurre le emissioni di gas a comprovata azione climalterante?
I cambiamenti recenti del clima vengono analizzati in particolar modo a partire dagli ultimi 50 anni cioè da quando le attività umane sono molto cresciute ed è diventata possibile l’osservazione della troposfera. Tutti i principali fattori ai quale è attribuito il cambiamento climatico sono causati dall’uomo: In particolare: incremento della concentrazione di gas serra in atmosfera; cambiamenti sulla superficie terrestre come la deforestazione; incremento della concentrazione media di aerosol.
L’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) conclude che la maggior parte degli incrementi di temperatura osservati dalla metà del XX secolo è con molta probabilità da imputare all’incremento di gas serra prodotto dall’uomo; è estremamente improbabile (probabilità inferiore al 5%) che gli aumenti climatici possano essere spiegati ricorrendo a cause naturali. Il riscaldamento interessa sia l’oceano sia l’atmosfera e ha avuto inizio quando i fattori naturali avrebbero dovuto invece produrre un raffreddamento. In questo momento, secondo i rilievi effettuati dall’Osservatorio di Mauna Loa (http://www.esrl.noaa.gov/gmd/ccgg/trends/) a marzo 2012 la concentrazione media di CO2 in atmosfera (a una quota di 3.900 m) era di 394,15 ppm rispetto alle 392,40 del marzo 2011. Il valore ancora non è ufficiale, in caso lo fosse si tratterebbe di un aumento dello 0,44% ovvero 1,75 ppm/anno al di sotto della media di 2,00 ppm/anno registrata nel periodo 2000-2010. Questa contrazione è sicuramente dovuta alla congiuntura economica negativa che sta contraendo i consumi: certo è che siamo ormai prossimi alle 400 ppm da molti scienziati indicata come la soglia per cambiamenti climatici irreversibili.
Cosa sta succedendo al clima?
Gli studi sono in corso: va detto che “tempo meteorologico” e “clima” sono termini che nel linguaggio comune vengono usati erroneamente come sinonimi ma dal punto di vista scientifico i loro significati sono completamente distinti. Il clima è il valore medio su una scala temporale di almeno 30 anni della variabile “tempo meteorologico”. Questo significa che non ha senso collegare direttamente un certo episodio meteorologico con un processo climatico: ha senso indagare, invece, fenomeni meteorologici “rari” che si presentano più frequentemente (al netto di fluttuazioni fisiologiche, nessun processo naturale è di per sé regolare in senso statistico) rispetto alla norma statistica. Fatti come le eccezionali ondate di caldo che colpiscono ormai abitudinariamente gli USA nel mese di marzo (quest’anno raggiunti i 31° a Chicago quando la media prevedeva non più di 11,3° – come se a Roma, si fossero raggiunti i 41° in marzo!).
In figura l’anomalia di temperatura registrata nello scorso mese di marzo (fonte Nasa EOS). Si noti, in un contesto comunque positivo, le forti anomalie statunitensi e dell’artico nordeuropeo (quasi 20° alle Svalbard).
Per quanto episodi nevosi, o comunque particolarmente freddi, abbiano un maggiore impatto sull’opinione pubblica e, come le tempeste, siano espressione di un generale incremento dell’energia in gioco nel sistema climatico globale, l’innalzamento delle temperature medie procede, seppure a un ritmo inferiore di quello registrato nel decennio 1990-2000. Come continua lo scioglimento dell’artico che perde ghiaccio pluriennale a favore di quello stagionale. Riprova della generale tendenza a confondere meteo e clima si ritrova proprio qui: più ghiaccio “vecchio” si scioglie più aumenta l’acqua dolce nel Mar Glaciale Artico più diminuisce la salinità media. Più acqua dolce significa un punto di congelamento superiore rispetto a quello di acqua più salata: significa che ad ogni inverno si noterà un aumento dell’estensione dei ghiacci artici rispetto alla media invece di una contrazione. Ma quel ghiaccio si scioglierà prima in estate avvicinando il momento di transizione in cui la banchisa esisterà solo in inverno.
I limiti di Kyoto erano poca cosa quando furono proposti ed oggi hanno senso solo per il valore politico che non di efficacia reale. Per bloccare questi processi le riduzioni delle emissioni, per un Paese come l’Italia, dovrebbe essere 10 volte superiori (-60%) rispetto al misero -5% raggiunto.
Ha senso investire su un processo peggiorativo delle condizioni ambientali di cui ancora non sappiamo definire la portata? Ha senso in un momento di grave recessione economica? Mentre l’opinione pubblica si interroga, anche distratta da numerose sirene e specchietti per allodole (come il paradosso dell’artico che si scioglie ma aumenta come estensione invernale) strani ossimori ci indicano che la strada per una scelta equilibrata non sarà facile: la banchisa artica scompare con conseguenze negative ancora tutte da valutare. Però, nel frattempo, permette l’accesso alle grandi navi esplorative che avrebbero già individuato giacimenti di petrolio per un 40% delle riserve attualmente disponibili oltre a metalli rari di cui l’elettronica è sempre più bisognosa. Se il principio precauzionale sostiene che un treno in corsa, dovrebbe ridurre la velocità se non ha completa visibilità del tragitto (e soprattutto se ha motivo di dubitare che ci sia un muro a tagliare i binari dietro una delle prossime curve) è certo che dal mondo economico e finanziario non arriverà nessun freno alla corsa del pianeta a bruciare combustibili fossili (ed emettere CO2 e altri gas climateranti).
Non resta che informarsi, studiare e partecipare al dibattito globale:
Il più autorevole sito italiano sul clima e i cambiamenti in atto: http://www.climalteranti.it/
Il Goddard Institute della Nasa, che si occupa di ricerca climatica: http://www.giss.nasa.gov/
Il sito Earth Observatory, che offre istantanee meravigliose in tempo reale del pianeta che cambia: http://earthobservatory.nasa.gov/
(1) Paesi dell’Allegato I (Paesi industrializzati): Australia, Austria, Bielorussia, Belgio, Bulgaria, Canada, Croazia, Danimarca, Estonia, Federazione Russa, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Italia, Giappone, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Monaco, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera, Turchia, Ucraina, Ungheria, Unione Europea.
(2) Burden Sharing Agreement (BSA): Accordo europeo, siglato nel 1998, che ha definito la ripartizione delle quote di riduzione delle emissioni nei Paesi dell’UE 15.