Si è aperta oggi a Durban, in Sudafrica, davanti a 17.000 delegati appartenenti di 195 Paesi e rappresentanti Organizzazioni ambientaliste ed Associazioni la 17esima Conferenza internazionale indetta dall’Organizzazione delle Nazioni Unite sul clima. Sul tavolo dei negoziatori appartenenti a 190 Paesi si ripropongono vecchie difficoltà a raggiungere un accordo, un’intesa auspicata da molti, in primis dall’Europa, affinché si possa tracciare la strada del post Kyoto, il trattato adottato nel 1997 e che per ora resta l’unico punto di riferimento per la riduzione delle emissioni di gas serra. Sin dalla sua approvazione, era chiaro che il Protocollo di Kyoto era una risposta parziale, iniziale, ad un problema grande e complesso. Ma siccome ogni lungo percorso inizia con un piccolo passo, ci si è spesso riferiti a “Kyoto” per spronare all’azione: era stato approvato un obbligo di riduzione delle emissioni in un quadro legale vincolante. Nel 2008-2012 i principali paesi industrializzati e quelli con le economie in transizione (riportati nell’Annex B del Protocollo: Stati Uniti, Europa, Canada, Giappone, Australia, Federazione Russa, ecc.) si impegnavano a ridurre le loro emissioni del 5,2% rispetto a quelle del 1990.
Sin dal 1997 era evidente che il Protocollo di Kyoto non poteva essere l’unica misura contro i cambiamenti climatici, ma il preliminare a una seria politica sul clima. Data la crescita delle emissioni in economie emergenti come la Cina, l’India, il Brasile, Messico, Sudafrica, Corea del Sud, anche se i paesi industrializzati avessero tutti rispettato gli impegni, le emissioni globali sarebbero comunque aumentate, come sta accadendo (http://www.esrl.noaa.gov/gmd/ccgg/trends/). Col tempo è cresciuta la consapevolezza che si sarebbe presto raggiunto un nuovo accordo ma alla Conferenza delle Parti di Copenhagen del 2009 non è stato approvato nessun nuovo accordo. Secondo l’analisi effettuata da Carraro e Massetti (http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1710487), gli scenari più ottimisti non erano basati sulla reale conoscenza dello stato di avanzamento dei negoziati, che si trovavano – e si trovano tuttora – ad affrontare due ostacoli insormontabili:
(1) gli Stati Uniti non potevano e non possono firmare alcun accordo vincolante, in quanto il Senato americano bloccherebbe la legislazione sul clima che darebbe dato al Presidente Obama la credibilità per porsi obiettivi più ambiziosi;
(2) i paesi in via di sviluppo erano e sono ancora riluttanti ad assumere qualsiasi impegno di riduzione delle emissioni giuridicamente vincolante, in quanto il loro obiettivo primario è quello di ridurre la povertà.
D’altro canto le attuali concentrazioni di gas serra in atmosfera attuali sono solo marginalmente attribuibili alle loro emissioni e di questo non si può che prendere atto.
Così si è giunti a uno “Stallo climatico” che ha impedito la firma di un vero e proprio successore del Protocollo di Kyoto e ha spinto il penultimo vertice sul clima a “prendere atto” di un più modesto “accordo di Copenaghen”: una empasse destinata a permanere anche a Durban e, probabilmente, a protrarsi anche nei prossimi anni.
La crisi finanziaria, la necessità di confermare i vecchi equilibri geopolitici per i Paesi Occidentali, la voglia di stabilirne di nuovi da parte di Cina e India, ma anche Turchia e Brasile non fanno che irrigidire i processi proprio mentre diversi gruppi di ricerca confermano il cambiamento in atto (http://earthobservatory.nasa.gov/GlobalMaps/view.php?d1=MOD_LSTAD_M; http://neo.sci.gsfc.nasa.gov/Search.html?datasetId=MOD_LSTAD_M) e definiscono uno stato di avanzamento del processo molto più pronunciato di quanto si credesse(http://earthobservatory.nasa.gov/IOTD/view.php?id=53108; http://earthobservatory.nasa.gov/IOTD/view.php?id=76377)
Un processo che sull’Italia e nel Mediterraneo – a differenza di quanto si possa credere – non renderà il tempo costantemente più caldo, ma aumenterà l’energia in gioco nei processi atmosferici portando sì ondate estive di calore più pronunciate ma soprattutto lunghi periodi miti e generalmente siccitosi interrotti da energici episodi di maltempo anche con freddo: in sostanza aumenteranno i fenomeni estremi con gravi conseguenze per i territori più densamente abitati sui quali già gravano rischi idrogeologici (http://www.ipcc.ch/news_and_events/docs/ipcc34/SREX_FD_SPM_final.pdf).
Per ora non resta che incentivare la conoscenza e la consapevolezza dell’opinione pubblica: la futura politica sul clima sarà più articolata e complessa di quanto fosse il Protocollo di Kyoto, con diverse tipologie di impegni e un numero maggiore di Paesi coinvolti, con la partecipazione degli Stati ma anche della società civile, del settore privato, degli enti locali e con un notevole spazio per specifici meccanismi tecnologici e finanziari. Perché il Cambiamento Climatico, come tutte le crisi è momento di riflessione ma anche opportunità per ripartire. Crisi finanziaria attuale, empasse di una economia fondata sull’illusione della crescita infinita, consapevolezza di abitare un mondo dove le risorse non sono infinite, collasso della biodiversità: tutto converge a Durban.