Secondo il presidente della BCE, Mario Draghi, “Bisognerebbe imparare a vivere senza le agenzie di rating o quanto meno imparare a fare meno affidamento sui loro giudizi”. “Rating” e “spread” prima che asettici forestierismi sono due concetti molto importanti nel mondo finanziario: eppure la loro applicazione e le loro ricadute nel mondo economico del quotidiano non è chiaro ai più.
Le agenzie di rating, nate agli inizi del Novecento negli Stati Uniti, analizzano la solidità finanziaria di soggetti quali stati, enti, governi, imprese, banche, assicurazioni. Il rating, che valuta l’entità del rischio di credito, si divide in due principali categorie: il rischio commerciale ed il rischio paese, ma non misura altri tipi di rischi quale il rischio di tasso o di cambio, ecc.
La valutazione della capacità del debitore di far fronte al rimborso del proprio debito finanziario viene fornita ricorrendo ad una scala alfabetica che va da un valore massimo ad uno minimo. Il rating di breve periodo valuta la solvibilità entro i 12 mesi mentre quello di lungo periodo valuta la solvibilità futura dell’emittente. Ovviamente più è alto il rating, minore è il rischio di investimento.
Lo spread o, più correttamente, “spread Btp-Bund” è la differenza (spread in inglese) tra i rendimenti dei Bund (titoli di stato tedeschi) e dei Btp (titoli italiani). Si calcola sottraendo il rendimento a scadenza di un Btp a 10 anni a quella di un Bund a 10 anni. Per interpretare lo spread, occorre tener presente che il rendimento di un titolo di stato rappresenta anche il suo livello di rischio: più è alto il rendimento, maggiore sarà il rischio che l’emittente non paghi le cedole e non rimborsi il capitale alla scadenza. A parti invertite, minore è il rendimento e minore sarà il rischio dell’obbligazione. In quest’ottica, se lo spread tra Btp e Bund aumenta, significa che il rendimento del Btp sta aumentando nei confronti del rendimento offerto da un’obbligazione ritenuta sicura come il Bund. Se il rendimento del Btp aumenta, significa che il mercato percepisce il titolo di stato italiano come meno sicuro rispetto all’equivalente tedesco. Se lo spread aumenta, significa che il mercato giudica in aumento il rischio di insolvenza per l’Italia, ossia giudica l’Italia sempre meno affidabile.
La globalizzazione economica non procede in maniera uniforme, ed il grado di integrazione dei mercati finanziari è attualmente superiore a quello dei beni, e del mercato del lavoro Questo rende, dunque, cruciale analizzare i meccanismi che regolano i mercati finanziari e le ripercussioni che questi hanno sul resto del sistema economico. Ma se il processo di finanziarizzazione è così avanzato come è possibile “vivere senza spread”?
Introducendo anche nella vita reale quelli che sono gli strumenti tipici della finanza, adattandoli alle logiche meno elastiche della circolazione dei beni e del mercato del lavoro. Procedendo a ritroso, dal basso, si potrà tentare il riallineamento con i vincoli imposti dalla finanza. È necessario ampliare la sfera delle potenzialità economiche di un territorio includendovi non solo i beni materiali classici, ma anche i beni comuni (l’acqua, l’aria, il suolo, la flora e la fauna, il paesaggio) e le potenzialità sociali dei residenti. Tenendo presenti le parole di Gunter Pauli, teorico della blu economy si possono enunciare alcuni principi fondamentali:
- tutti gli aspetti, in sé, sono sostenibili: l’insostenibilità deriva principalmente dall’uso che se ne fa;
- le risorse energetiche dipendono dalle leggi della fisica: ogni distorsione del loro “costo” dovuta a logiche diverse è puramente speculativa e va corretta;
- ogni scelta deve rispondere allo stesso modo ai bisogni umani e ambientali: i due ambiti non sono separabili;
- un alto livello di efficienza energetica genere sempre un surplus di risorse economiche e sociali;
- i flussi economici e finanziari non possono più essere attivati e indagati singolarmente: è fondamentale stimolare flussi di reddito multipli perché un ritorno sugli investimenti è possibile solo attivando diverse tipologie di processi;
- non esistono rifiuti: ogni cosa genera valore;
- un “problema di sistema” si risolve con un “insieme di innovazioni”.
L’obiettivo della sostenibilità sociale e ambientale come economica e finanziaria impone di guardare ai costi dei processi che quotidianamente animano le città da una prospettiva più ampia. Se finora ci si è concentrati principalmente sulla sostenibilità dell’abitare da una parte e sulla riduzione delle emissioni dei trasporti dall’altra, è giunto il momento di approcciare il tema della mobilità da una prospettiva congiunta.
È il momento della sostenibilità urbana. Ogni cittadino abita un luogo di vita (la residenza) e opera in un luogo produttivo (il lavoro): durante la giornata usufruisce per un tempo determinato di svariati altri luoghi per soddisfare determinati bisogni (servizi). L’attuale struttura della società lega questi luoghi da movimenti ciclici in tutto simili ai cicli circadiani che caratterizzano i processi biologi.
Il miglioramento della sostenibilità dell’abitare, così come della sostenibilità dei processi produttivi, visti nella loro fissità risponde solo parzialmente al problema della mitigazione del consumo di risorse nei cicli svolti quotidianamente da ogni cittadino. Se ogni elemento (casa-lavoro-servizi) è inquadrato dinamicamente all’interno del ciclo quotidiano che li unisce si potrà elaborare una soluzione di sostenibilità che non sia mirata solo agli estremi ma che ottimizzi lo stesso ritmo, con un beneficio che non sarà solo legato tutto all’abitare o tutto al luogo di lavoro ma a quel complesso sistema relazionale che è la vera forma delle città. Una città è sì un insieme di edifici ma soprattutto una complessa rete relazionale di cui case, uffici e trasporti sono solo la parte più visibile: il 60% delle emissioni di CO2 non è nell’automobile che la produce in ultimo ma è smaterializzato nelle scelte che stanno a monte della decisione di prendere quell’automobile.
L’Italia è un Paese ad elevata densità abitativa, dove l’80% della popolazione si concentra in meno del 40% del territorio. È un territorio a forte vocazione urbana in cui le città non sono più competitive. Se nel mondo globalizzato la competizione tra Stati è diventata competizione tra città strategica, è giocoforza che dietro la contingenza economica negativa generalizzata si nasconda una debolezza propria dell’Italia: la perdita di competitività delle proprie aree urbane che possa mettere seriamente in discussione le imminenti prospettive di ripresa.
Dopo l’esplosione demografica degli anni Settanta, dalla fine degli anni Novanta prende il via una seconda fase di urbanizzazione diffusa: se nella precedente il centro della città di riferimento mantiene ancora un’influenza predominante in questa fase lo spazio esterno alla città si isotropizza. Lo sviluppo è solo parzialmente ordinato verso la città: le nuove tecnologie rendono infatti i cittadini sempre meno dipendenti dalle funzioni storiche assolte dal nucleo storico. Lo sviluppo urbano isotropo (proiettato cioè in ogni direzione, senza che una venga ad assumere un significato prevalente) ha due effetti destrutturanti per la città:
- rarefazione della densità territoriale;
- indebolimento delle funzioni urbane.
Il fattore che più di ogni altro ha avuto – ed ha tuttora – un ruolo prioritario in questo fenomeno risiede nell’aver favorito – o non impedito – che la mobilità privata prendesse il sopravvento. L’isotropizzazione degli spazi è causata dal prevalere della legge dell’automobile: spostati fino a quando la spesa per il carburante è conveniente. In questo modo tutte le esternalità restano nascoste. I cicli circadiani hanno assunto dei costi assolutamente insostenibili: in questo momento le città italiane non sono competitive né in termini di produttività né in termini di benessere offerto.
È nell’ammontare di questi costi nascosti che si cela il vero debito italiano: se tutti i processi vengono analizzati e ottimizzati in quest’ottica – dai flussi pendolari più elementari al trasporto delle merci di lunga distanza – la città diventa il vero luogo della sostenibilità, perché concentra usi e risorse. Le città iniziano a produrre ricchezza che sarà un reddito reale con cui il Paese potrà saldare i suoi creditori.
Filovie ad alto livello di servizio, tranvie, metropolitane e ferrovie possono avvicinare persone e luoghi creando socialità; mettere nella rete globale (resto del mondo > aeroporti e porti > realtà urbana) monumenti e landmark che sono Patrimonio dell’Umanità ma che oggi sono irraggiungibili; offrire dei vettori alternativi per il trasporto delle merci all’interno delle aree urbane.
In Italia su 100 persone che si spostano solo 7 utilizzano il trasporto pubblico.
In Italia ogni 100 kg di merci solo 9 viaggiano in treno.
In Italia ogni 100 kg di rifiuti 54 vengono interrati tal quali: a Roma ben 84 kg finiscono in discarica così come sono.
In Italia esistono 79 aeroporti: tanti microscali e nessun vero hub. 5 sono connessi alla rete ferroviaria ma nessuno è servito da relazioni con frequenze inferiori ai 15’. Nessuno è raggiunto da metropolitane o tramvie, né tantomeno dall’AV, come accade a Parigi Charles-de-Gaulle oppure Madrid Barajas: eppure sia Fiumicino che Malpensa ambiscono ad essere hub di primo livello.
L’Italia, penisola e isole nel cuore del Mediterraneo, ha 38 grandi porti commerciali ma nessuno supera le 50.000 t anno di merci. Marsiglia è a 97.000, Barcellona 58.000. Nessun porto italiano supera i 10 milioni di passeggeri anno: solo Napoli e Messina superano gli 8 per flussi passeggeri locali. Il primo porto crociere italiano è Civitavecchia con circa 4 milioni di passeggeri. In 6 anni Barcellona è diventato il primo porto crociere del Mediterraneo con 7 milioni di passeggeri.
Voi investireste su un Paese così?