Jacopo è uno studente intelligente e coraggioso che dal suo blog ha pubblicato un messaggio nato da uno scambio di opinioni, su Facebook, avuto con il Ministro della Pubblica Istruzione. Un messaggio di una semplicità disarmante che va dritto al sodo: per una volta lasciamo i nostri argomenti tecnici, lasciamo da parte i numeri perché le cose semplici sono anche le più efficaci.
E soprattutto perché è un messaggio che ci riguarda tutti, indistintamente.
Qualche settimana fa su Twitter ho avuto il piacere di scambiare due brevissime battute col Ministro MariaChiara Carrozza. Ho voluto romperle bonariamente le scatole, ricordandole quanto difficile sia la vita dei comuni cittadini, troppo spesso trattati con pesi e misure diverse rispetto alla classe politica. A maggior ragione se il cittadino in questione è disabile, dovendo affrontare oltre ai classici problemi quotidiani ogni genere possibile di barriera: da quella architettonica a quella culturale e sociale.
Così, anche la normale abitudine di prendere un mezzo di trasporto pubblico, diventa una vera impresa se non addirittura un’utopia!
Sarebbe stato bello approfondire ulteriormente l’argomento ma ho preferito chiudere lì il discorso, vista oltretutto la condivisione del mio tweet da parte del Ministro sulla sua bacheca personale (sincera o meno che fosse non ha importanza, basta che se ne parli).
Occorrerebbe però un piccolo esame “di cuore”, più che di coscienza.
Sì perché, cari politici, se non volete sforzarvi di immaginare cosa significhi dover chiamare ogni santa volta una stazione ferroviaria per sapere se, a una cert’ora, il treno sarà attrezzato con una pedana; se non riuscite a comprendere il disagio di aspettare una, due, tre fermate in più sperando che il bus successivo sia finalmente quello agibile; se la vostra vescica non è abbastanza “elastica” da immedesimarsi in una che, per un bagno non a norma in un vagone, è allenata per trattenere la pipì per intere tratte… Cercate ALMENO di capire quanto, a lungo andare, sia triste essere single.
Sì, avete capito bene. Se io sono single è SOLO colpa degli autobus!!
Come non è possibile?? Ma è scontato, no? Pensateci bene…
Intendiamoci, non che lo sia sempre stato, e infondo mi auguro che non lo rimarrò a vita. Ma io la ragazza dei miei sogni, se non monto su un mezzo pubblico, proprio non la potrò mai trovare.
Avete presente la classica scena da film dove lui con uno zainetto sale sull’autobus, fuori piove, si infila le cuffie e appoggia il capo al finestrino. Le gocce d’acqua giocano a fare le corse sul vetro freddo, mentre nel frattempo sale Lei, bella come il sole che non c’è, e gli si siede accanto sorridendo. Quel sorriso che ti illumina la giornata; che ti regala il senso di ogni canzone; che ti costringe a salire su quel bus ogni altra mattina successiva sperando di ri-incontrarla?
Oppure quella dove aspetti alla fermata col solito zaino e le solite cuffie, e quando arriva Lei, sempre bellissima, inizia puntualmente a piovere (chissà perché piove quasi sempre, forse per comodità). Tàc, tu puntualmente sei l’unico ad avere l’ombrello e così ti offri di ripararla, acquistando subito 20 punti. E tra una chiacchiera e l’altra, sotto la stoffa impermeabile e il picchiettare dolce della pioggia, scopri che avete gli stessi gusti musicali. E allora “Ma dai, davvero? Sì, anche io. No, non mi dire! Va bene, vediamoci…”
Ecco, insomma, quelle lì. Quelle sono le occasioni che mi son sempre mancate: possibile che nessuno ci abbia mai pensato? D’altra parte anche De André cantava “grazie a Te ho una barca da scrivere, ho un treno da perdere”… Non diceva “libro” o “mazzo di fiori”: diceva barca e treno!!
Le stazioni… Ma quanto saranno belle le stazioni?? Soprattutto all’alba e di notte, quando non c’e nessuno. Veder arrivare treni semi-deserti, soffermare gli occhi su chi scende o chi sale. Immaginare dove sono stati, dove andranno, da cosa scappano o cosa cercano, chi stanno aspettando nella loro vita… E proprio in quel momento arriva Lei, a chiederti un accendino, un’indicazione, un qualsiasi cosa che c’entri niente o tutto.
Le stazioni sono posti meravigliosi, carichi di amore: abbandonato, conteso, regalato, straziato, ritrovato.
E allora…
Non vi chiedo di cambiare le cose perché un cittadino deve poter andare dove vanno tutti gli altri. Non ve lo chiedo perché siamo tutti uguali; perché la libertà dovrebbe essere un diritto sacro-santo. Non vi chiedo di rendere treni, pullman, taxi, aerei, traghetti e dischi volanti agibili perché è la cosa più civile e naturale che si possa pensare in un Paese Democratico. Né tantomeno perché sarebbe il caso, d’ora in avanti, di spendere quei pochi soldi rimasti in maniera intelligente.
Ve lo chiedo perché sono stanco di essere single “per scelta”.
Vostra, ovviamente.
Già, ve lo chiedo solo per quello: fatemi prendere ‘sto benedetto autobus!
Perché alla fin fine, come si dice, quando c’è l’amore c’è tutto… No??
(…o forse era la salute? Boh.)
Handicap: menomazione, svantaggio – fisico o psichico; corsa ippica che prevede un livellamento delle maggiori o minori abilità dei concorrenti tramite un sistema di vantaggi per i peggiori e svantaggi per i migliori. Secondo alcuni dizionari, deriverebbe dall’inglese: hand in cap mano nel cappello. È il nome di un vecchio gioco d’azzardo che si giocava estraendo monete da un cappello, passato nella terminologia ippica con la suddetta accezione sportiva. Da qui si è diffuso l’uso figurato oggi più usato di svantaggio psicofisico.
L’espressione “disabilità” sottolinea il deficit, ciò che manca rispetto a un'”abilità”, rispetto ad un’idea di normalità, alla “norma”. Rispetto a uno standard medio di funzionamento si evidenzia, in negativo, la disabilità. Una persona fa male qualcosa, o non la sa fare affatto: non ci vede, non parla, cammina male, ragiona lentamente, ecc., rispetto all’idea di “normalità”. Ma quale? Esiste una normalità, una persona “normale”? Evidentemente no. Perché l’unica norma è che non esiste una norma: siamo tutti uguali nella diversità.
Il primo diritto riconosciuto di una società democratica è la mobilità: da quando ci alziamo la mattina, tutto è movimento. Il lavoro, il tempo libero, le compere, gli incontri, la natura.
Il primo obiettivo di una società smart (sì, proprio nella sua accezione di furbizia) è l’accessibilità: più c’è accessibilità più circolano persone, beni e servizi. Più le persone si muovono e più c’è ricchezza.
La declinazione più importante per l’accessibilità è quella di essere “per tutti”: passare dalle disabilità alle diversabilità. Si potrebbe dire che proprio riconoscendo ed enfatizzando le differenze, tutte le varie differenze, si modifica l’immagine della norma. La normalità diventa pluralità di differenze, non uniformità fissa, definita attraverso standard, medie e misurazioni statistiche.
Dunque il confronto con la normalità si fa difficile. La normalità si frammenta in una pluralità di modi di agire, di pensare, di “funzionare”‘, di raggiungere obiettivi. Naturalmente non tutti gli obiettivi sono uguali in termini di correttezza etica o di efficienza: ce ne sono di sbagliati, come ci sono modi inefficienti.
Ma è soltanto dal riconoscimento e valorizzazione della pluralità dei modi di agire che nasce l’idea della diversabilità? Non solo, nasce anche dal non permettere al deficit di oscurare il valore della persona nella sua essenziale umanità. Lo sguardo va troppo spesso alla “carrozzina”, al deficit, e totalizza, copre tutta la persona, che diventa così il “disabile”. Orientarsi alla diversabilità non deve significare negare le reali (e gravi) necessità di chi ha un grave deficit, che va riconosciuto, valutato, abilitato e riabilitato, dotato di ausili, protesi, tecnologia, ecc. Non ne deve risultare una negazione degli specifici bisogni delle persone con i deficit più gravi, quelle più vulnerabili.
Tanto meno si può dimenticare l’handicap, che è il frutto sociale di condizioni ambientali svantaggianti, emarginanti, che creano difficoltà e che per questo andrebbero isolate e sconfitte: dalle barriere architettoniche ai vari pregiudizi, alle paure, alle incomprensioni, alle non conoscenze. Diversabilità è visione positiva, aspettative di competenze (anche se magari difformi dalla “norma” fiducia nello sviluppo, nella crescita, nella realizzazione dei potenziali. Questa fiducia è una profezia che si autoavvera, molto spesso, che produce essa stessa crescita e nuove abilità.
Invece il pietismo è sfiducia, come lo è la finta compassione assistenzialistica che nasconde una reale indifferenza verso l’altro. Dal piccolo al grande: una carrozzina che trova un marciapiede senza scivolo ha il suo corrispettivo in un trasporto pubblico carente e poco fruibile che non pone alternative al ricorso all’auto privata. Uno spazio pubblico fruibile da tutti trova il suo corrispettivo in un trasporto pubblico attraente, affidabile e accessibile a tutti.
Non ci sono i soldi è un mantra tecnicamente errato (perché i soldi ci sono) e fuorviante in senso economico, perché costringe i cittadini a concentrarsi su capitoli di spesa che nulla hanno a che fare con il bilancio ordinario dello Stato. Ma dire che non ci sono i soldi per equipaggiare il territorio e renderlo accessibile è oltremodo odioso. Qualcuno crede veramente che il Paese riacquisterà competitività lasciando alle sole forze dei cittadini la possibilità di rispondere ai propri bisogni quotidiani, man mano che si tagliano i servizi e si dirottano su oscuri meccanismi finanziari i ricavi delle tasse? Uno Stato ha un futuro quando abilita e non quando disabilita.
Perché nessuno è disabile, ma siamo tutti abili ognuno a proprio modo. #vorreiprendereiltreno