Ascoltare i toni dei dibattiti durante le plenarie di Durban sul Protocollo di Kyoto e sulla Cooperazione a lungo termine, fa capire come ormai sia diffusa la consapevolezza dell’importanza dell’accordo, e dei rischi che si corrono nel ritardare le riduzioni. Ancora una volta, l’UNFCCC ha riconosciuto (come viene scritto in varie decisioni) l’importante ruolo del Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici (IPCC) nel fornire aggiornamenti tecnico-scientifici – che hanno il consenso di tutti i paesi -sulle conoscenze in scienza del clima. Nell’UNFCCC inoltre si riconosce all’unanimità, dall’Arabia Saudita agli USA, che il problema dei cambiamenti climatici esiste ed è serio. Tre storie per tre Paesi per capire come si sta reagendo localmente.
CANADA, la furbizia. Giocare, aderire a un trattato internazionale (Kyoto) vestendosi per dieci anni di un bel abito verde di sostenibilità per poi uscire quando si è consapevoli di aver perso per non pagare la posta pattuita. È questa la sconcertante decisione del governo canadese: “Per noi il Protocollo di Kyoto è il passato”. Peter Kent, ministro dell’ambiente canadese, ha le idee chiare. Il Canada così intende liberarsi dai legacci dell’accordo del 1997 ad un anno dalla scadenza, per “risparmiare” oltre 10 miliardi di € in multe. Il Canada non ha ridotto le emissioni e ha causato quindi un danno ambientale di livello mondiale con un costo di molto superiore a quanto stabilito dal regime sanzionatorio di Kyoto, perché il Paese nordamericano guida la classifica delle emissioni procapite. Ma cosa fare se ci si accorge che, ora che il petrolio si è stabilizzato oltre i 100 $/bar e si è seduti sul più grande giacimento mondiale di petrolio ad alto costo di estrazione? Si cambiano le regole a gioco iniziato: la parola magica è “sabbie bituminose”. Una miscela di argilla, acqua, sabbia, fango e bitume, dalla quale si può ottenere petrolio grezzo. Il processo è tutt’altro che economico: per ricavare 1 barile di petrolio è necessario “strizzare” 2 tonnellate di sabbie, usando solventi e acidi estremamente aggressivi. Ma si tratta comunque di oro nero, e il Canada ha le riserve più consistenti: nel bacino del fiume Athabasca, in Alberta, se ne calcolano 1.700 miliardi di barili – più dell’Iran, quarto produttore di petrolio convenzionale dell’Opec. Ma le sabbie bituminose sono peggio del petrolio: Estrarre greggio in questo modo è estremamente dannoso per l’ambiente. Un barile di petrolio emette, all’estrazione, 29 kg di ossido di carbonio: le sabbie bituminose ne “costano” invece 125 kg di CO2, quattro volte tanto. I fatti sono questi e Athabasca è ormai il più grande sito mondiale di estrazione: questa la sua crescita esponenziale http://earthobservatory.nasa.gov/IOTD/view.php?id=76559
CILE, l’onestà. L’estate australe è appena iniziata e le temperature nel paese sudamericano si annunciano oltre la media. Così Rodrigo Alvarez, titolare delle Politiche ambientali, ha lanciato una campagna per incoraggiare i cileni a ridurre l’uso dell’aria condizionata negli uffici e nelle case (per chi se la può permettere, ovviamente). E il risparmio inizia dalle abitudini estetiche: come già in Giappone e in Spagna, Alvarez ha invitato gli uomini cileni a rinunciare alla cravatta e lasciare la temperatura degli uffici più alta. Secondo i dati del ministero dell’Ambiente di Santiago, infatti, tenere i condizionatori più alti da uno a tre gradi ridurrebbe la bolletta energetica del paese di 10 milioni di dollari. D’estate, peraltro, il sistema energetico cileno è sempre sotto pressione. Un fenomeno noto nei Paesi mediterranei (come l’Italia) dove i picchi di assorbimento si raggiungono ormai proprio in estate con un aggravio anche del 30%.
ITALIA, la cecità. E l’Italia? Fa finta di nulla, naturalmente. Non solo in termini di buone abitudini e di civiltà ma anche in termini di risparmio, competitività e rilancio produttivo del Paese. La scelta del Canada non cade in una particolare contingenza ma all’inizio di una fase che diversi studi indicano ormai in maniera univoca: quella in cui il prezzo del greggio non scenderà più sotto i 100-120 $/bar mantenendosi stabilmente oltre la soglia di convenienza per l’estrazione da siti complessi. Per ogni 1$/bar di aumento sono circa 12 millesimi di cent in più al litro di benzina: se l’anno prossimo si dovesse arrivare a 120$/bar si avrebbero 24 cent in più per litro (benzina a 1,860 €/l). Le fluttuazioni del prezzo petrolifero, ormai sempre più ravvicinate, significherebbero secondo alcuni una instabilizzazione delle quotazioni dovute all’attraversamento del picco di produzione (è stata estratta la metà di tutti i giacimenti petroliferi disponibili, e ne resta il 50% o meno) . La crisi maschererebbe gli effetti della transizione così se l’economia, perlomeno nell’est asiatico, ripartisse a pieno regime si potrebbe arrivare a 150$/bar nel giro di 3 mesi. Con benzina in su di 60 cent/l si arriverebbe a 2,436 €/l. Benzina a 2,436 significa (a parità di spostamenti) un aggravio di 155€ famiglia/mese della già elevata spesa familiare mensile per la mobilità (350€ secondo l’ISTAT). Scenario non remoto: in questo caso non è difficile credere che in città come Roma, dove il 90% degli spostamenti è affidato all’automobile e il trasporto pubblico elettrico è assolutamente insufficiente, il sistema della mobilità collasserebbe e con esso la qualità della vita e la competitività come fattore di sviluppo delle grandi aree urbane. Con ricadute pesantissime sullo stesso PIL nazionale e non solo regionale.